Dal capitolo
SAMHAIN DI SANGUE
Ricordo le sagome indistinte degli alberi come grandi fantasmi, nella fievole luce dell’alba invernale.
Ricordo l’aria umida che scivolava sulle mie piccole braccia e che avviluppava la radura quasi a volerla soffocare. Gelida come una brutta notizia.
Più di tutto, ricordo un silenzio talmente innaturale da darmi fastidio alle orecchie. Forse fu per romperlo che mormorai al mio maestro: “Ho sognato un paese tutto verde, pieno di fiori, con bellissime pianure simili a onde, colline azzurre, laghi e cascate. Era forse l’isola di Eterna Giovinezza quella che ho sognato? Una visione del futuro che mi aspetta?”.
“Forse. Ma dovrà aspettarti ancora per molto, piccola Rowan”, rispose lui sotto la lunga barba imbiancata dagli anni: “non è ancora tempo, per te, di lasciare questo mondo”. Gli occhi ipnotici di Amergin attraversavano i miei, guardando molto più lontano. Fu la sua voce rassicurante a darmi la forza di avanzare in quel silenzio spettrale che serpeggiava nel bosco e che presagiva grande sventura per l’Isola di Mon.
L’anziano druido si fermò ai piedi di una grande quercia, dove mi fece sedere e, senza perder tempo, tracciò un restan tutto intorno nel terreno con la punta del suo bastone. Poi mi si inginocchiò di fronte e avvolse la mia testa con le sue lunghe dita nodose.
“Ora ascoltami, bambina mia: morte e distruzione oggi ti passeranno davanti agli occhi; ma tu non avrai nulla da temere se rimarrai all’interno di questo sigillo di protezione, finché non sarà giunto il momento”.
Era ancora buio. La grande, nuova fiamma di Samhain ardeva in alto sulla collina, mentre i fuochi dell’anno vecchio, spenti prima della mezzanotte, esalavano gli ultimi grigi respiri sulla riva a sud dell’isola.
Misi a fuoco la radura intorno: si stava alzando una fitta foschia che inghiottiva poco a poco tutta l’insenatura, con le case del villaggio e ogni cosa che incontrava.
Come la paura, quella nebbia si insinuava anche nella mia mente, facendomi dubitare di tutto, anche delle cose più certe. Mi aveva nascosto persino quel luogo tanto familiare: ai piedi di quella grande quercia, seduta ora immobile ed atterrita, un tempo avevo appreso per anni i segreti
delle piante e dei minerali, i nomi delle stelle nel cielo e degli animali sulla terra; la storia di tante genti, la geografia di molti luoghi; all’ombra delle sue fronde, Amergin aveva tenuto le sue lezioni, fin da
quando avevo memoria.
Proprio sotto quella quercia, la sua voce e quella delle foglie mosse dal vento mi avevano cullata narrandomi di eroi e di luoghi fantastici, di re e di guerrieri, di donne e di uomini che non temono la morte e di creature destinate a vivere in eterno.
Il ricordo di quei giorni si rincorse con quello dei giochi sulla spiaggia, poi con quello dei racconti intorno al fuoco nelle notti d’estate; l’ultimo ricordo gioioso fu quello dei preparativi per la festa di Samhain, poche ore prima che un misterioso nemico si facesse strada, insieme alla nebbia, sulla sacra Isola dei Druidi.
Un piccolo granello di sabbia, Ynys Mon, nell’acqua a poche miglia dalla costa occidentale della terra che i Romani chiamano Britannia.
Poco più di un sassolino nel freddo mare del nord, ma che in realtà era la scintilla vitale e il cuore di tutti noi appartenenti al popolo dei Celti: era il centro dell’antico sapere e delle antiche leggi, dove i piùsaggi tra i druidi e le sacerdotesse tramandavano da secoli la loro scienza ai loro discepoli.
Grazie a questo granello di sabbia chiamato Ynys Mon, le origini della mia gente non sarebbero state mai dimenticate, l’amore per la terra sarebbe sempre rimasto forte, il rispetto per gli uomini e per le leggi umane e divine sarebbe sempre rimasto acceso, come un fuoco perenne tenuto in vita da fedeli vestali.
E proprio quella notte che ora volgeva al termine, in onore delle antiche tradizioni, molti di questi fuochi erano stati accesi: i fuochi sacri che avrebbero fatto da guida alle anime dei defunti; agli spiriti che, solamente nei giorni di Samhain, possono tornare in questo mondo per far visita ai propri cari.
Quella notte, però, il soffio sacro dell’Aldilà atteso da noi tutti si era fatto strada nel villaggio insieme a un ben più inaspettato alito di morte. Lo sentivo nel petto e sulla pelle.
Lo vedevo avanzare su per la riva attraverso l’acqua gelida del mare ancora buio, strisciare sulla sabbia, lasciare le sue impronte silenziose, dirigersi verso il villaggio, varcare le soglie ornate di foglie di sorbo, insinuarsi nelle case e…
Ma gli acuti occhi grigi di Amergin mi richiamarono all’ordine. Una grande, benevola energia fluì dalle sue mani alla mia testa, e poi giù attraverso il viso, dal collo fino alla gola. Il calore cresceva permeando tutto il mio corpo. Irradiandolo, lo rasserenava e lo fortificava.
“Ricordi, Rowan, di quando imparasti a volare, a Ynys Seiriol, un pomeriggio che la marea si era ritirata e potevamo confonderci con i gabbiani sulla sabbia?”.
Una vertigine mi percorse la schiena, “questa volta sarai uno degli uccelli che guidano l’aurora nei sentieri tra i boschi. Perciò chiudi gli occhi e preparati a spiccare il volo”.
Leggendo nel mio sguardo mille interrogativi, capendo quanto fossi restia a staccarmi dalla sua immagine, Amergin mi sorrise e mi rassicurò: “non temere, Rowan, io sarò sempre con te”.
“Allora non mi lasci qui da sola, vero?”.
“Non è perché non la vedi, che una cosa non c’è”.
“Quando saprò che sarà giunto il momento?”.
“Non tutto dipende da noi”.
Sospirai. Non potevo fare altro che ascoltarlo e arrendermi al mio destino.
Quell’uomo, dallo sguardo vasto come il mondo, dal cuore limpido come la più chiara delle sorgenti, non avrebbe aggiunto altro. Lo sapevo come so che un triangolo ha tre lati o che il fulmine arriva sempre prima del tuono: perciò mi arresi subito lasciando che le palpebre mi si chiudessero e che fosse la voce profonda del mio maestro a guidarmi, rimbombandomi nell’anima. “Controlla il respiro, Rowan: l’espirazione e l’inspirazione. Rallentale, fai in modo che siano regolari e profonde. Concentrati sul tuo respiro: vèdilo! Vedi l’aria, sotto forma di tante piccole bolle, entrare nelle tue narici e osservala uscire: una, due, tre volte… cento volte. diventa il tuo respiro: leggero, limpido, penetrante e sfuggente. Sii il tuo respiro. Non senti le membra del tuo corpo perché ne stai uscendo: il respiro è leggero; è aria e l’aria sale, si muove libera… va…”.
Nella totale concentrazione in cui ero assorta, non percepivo né rumori né immagini.
Ero leggera. Salivo.
L’aria mi conduceva, mi attraeva… ora ero aria…
Andavo sempre più in alto: adesso vedevo di nuovo, ma in modo diverso.
E lassù, dove la nebbia andava diradandosi, nuovi suoni mi giungevano sempre più distintamente, ma non li udivo con le mie orecchie. Quasi ci passavo attraverso…
Tutti i sensi adesso tornavano più acuiti, più intuitivi.
Non erano più quelli di una ragazzina, bensì di un predatore in grado di volare, di scorgere con occhi attenti anche i particolari più lontani e di sapere cosa stava accadendo più in basso, sotto le sue ali corvine e i suoi neri artigli.
Ricordo l’aria umida che scivolava sulle mie piccole braccia e che avviluppava la radura quasi a volerla soffocare. Gelida come una brutta notizia.
Più di tutto, ricordo un silenzio talmente innaturale da darmi fastidio alle orecchie. Forse fu per romperlo che mormorai al mio maestro: “Ho sognato un paese tutto verde, pieno di fiori, con bellissime pianure simili a onde, colline azzurre, laghi e cascate. Era forse l’isola di Eterna Giovinezza quella che ho sognato? Una visione del futuro che mi aspetta?”.
“Forse. Ma dovrà aspettarti ancora per molto, piccola Rowan”, rispose lui sotto la lunga barba imbiancata dagli anni: “non è ancora tempo, per te, di lasciare questo mondo”. Gli occhi ipnotici di Amergin attraversavano i miei, guardando molto più lontano. Fu la sua voce rassicurante a darmi la forza di avanzare in quel silenzio spettrale che serpeggiava nel bosco e che presagiva grande sventura per l’Isola di Mon.
L’anziano druido si fermò ai piedi di una grande quercia, dove mi fece sedere e, senza perder tempo, tracciò un restan tutto intorno nel terreno con la punta del suo bastone. Poi mi si inginocchiò di fronte e avvolse la mia testa con le sue lunghe dita nodose.
“Ora ascoltami, bambina mia: morte e distruzione oggi ti passeranno davanti agli occhi; ma tu non avrai nulla da temere se rimarrai all’interno di questo sigillo di protezione, finché non sarà giunto il momento”.
Era ancora buio. La grande, nuova fiamma di Samhain ardeva in alto sulla collina, mentre i fuochi dell’anno vecchio, spenti prima della mezzanotte, esalavano gli ultimi grigi respiri sulla riva a sud dell’isola.
Misi a fuoco la radura intorno: si stava alzando una fitta foschia che inghiottiva poco a poco tutta l’insenatura, con le case del villaggio e ogni cosa che incontrava.
Come la paura, quella nebbia si insinuava anche nella mia mente, facendomi dubitare di tutto, anche delle cose più certe. Mi aveva nascosto persino quel luogo tanto familiare: ai piedi di quella grande quercia, seduta ora immobile ed atterrita, un tempo avevo appreso per anni i segreti
delle piante e dei minerali, i nomi delle stelle nel cielo e degli animali sulla terra; la storia di tante genti, la geografia di molti luoghi; all’ombra delle sue fronde, Amergin aveva tenuto le sue lezioni, fin da
quando avevo memoria.
Proprio sotto quella quercia, la sua voce e quella delle foglie mosse dal vento mi avevano cullata narrandomi di eroi e di luoghi fantastici, di re e di guerrieri, di donne e di uomini che non temono la morte e di creature destinate a vivere in eterno.
Il ricordo di quei giorni si rincorse con quello dei giochi sulla spiaggia, poi con quello dei racconti intorno al fuoco nelle notti d’estate; l’ultimo ricordo gioioso fu quello dei preparativi per la festa di Samhain, poche ore prima che un misterioso nemico si facesse strada, insieme alla nebbia, sulla sacra Isola dei Druidi.
Un piccolo granello di sabbia, Ynys Mon, nell’acqua a poche miglia dalla costa occidentale della terra che i Romani chiamano Britannia.
Poco più di un sassolino nel freddo mare del nord, ma che in realtà era la scintilla vitale e il cuore di tutti noi appartenenti al popolo dei Celti: era il centro dell’antico sapere e delle antiche leggi, dove i piùsaggi tra i druidi e le sacerdotesse tramandavano da secoli la loro scienza ai loro discepoli.
Grazie a questo granello di sabbia chiamato Ynys Mon, le origini della mia gente non sarebbero state mai dimenticate, l’amore per la terra sarebbe sempre rimasto forte, il rispetto per gli uomini e per le leggi umane e divine sarebbe sempre rimasto acceso, come un fuoco perenne tenuto in vita da fedeli vestali.
E proprio quella notte che ora volgeva al termine, in onore delle antiche tradizioni, molti di questi fuochi erano stati accesi: i fuochi sacri che avrebbero fatto da guida alle anime dei defunti; agli spiriti che, solamente nei giorni di Samhain, possono tornare in questo mondo per far visita ai propri cari.
Quella notte, però, il soffio sacro dell’Aldilà atteso da noi tutti si era fatto strada nel villaggio insieme a un ben più inaspettato alito di morte. Lo sentivo nel petto e sulla pelle.
Lo vedevo avanzare su per la riva attraverso l’acqua gelida del mare ancora buio, strisciare sulla sabbia, lasciare le sue impronte silenziose, dirigersi verso il villaggio, varcare le soglie ornate di foglie di sorbo, insinuarsi nelle case e…
Ma gli acuti occhi grigi di Amergin mi richiamarono all’ordine. Una grande, benevola energia fluì dalle sue mani alla mia testa, e poi giù attraverso il viso, dal collo fino alla gola. Il calore cresceva permeando tutto il mio corpo. Irradiandolo, lo rasserenava e lo fortificava.
“Ricordi, Rowan, di quando imparasti a volare, a Ynys Seiriol, un pomeriggio che la marea si era ritirata e potevamo confonderci con i gabbiani sulla sabbia?”.
Una vertigine mi percorse la schiena, “questa volta sarai uno degli uccelli che guidano l’aurora nei sentieri tra i boschi. Perciò chiudi gli occhi e preparati a spiccare il volo”.
Leggendo nel mio sguardo mille interrogativi, capendo quanto fossi restia a staccarmi dalla sua immagine, Amergin mi sorrise e mi rassicurò: “non temere, Rowan, io sarò sempre con te”.
“Allora non mi lasci qui da sola, vero?”.
“Non è perché non la vedi, che una cosa non c’è”.
“Quando saprò che sarà giunto il momento?”.
“Non tutto dipende da noi”.
Sospirai. Non potevo fare altro che ascoltarlo e arrendermi al mio destino.
Quell’uomo, dallo sguardo vasto come il mondo, dal cuore limpido come la più chiara delle sorgenti, non avrebbe aggiunto altro. Lo sapevo come so che un triangolo ha tre lati o che il fulmine arriva sempre prima del tuono: perciò mi arresi subito lasciando che le palpebre mi si chiudessero e che fosse la voce profonda del mio maestro a guidarmi, rimbombandomi nell’anima. “Controlla il respiro, Rowan: l’espirazione e l’inspirazione. Rallentale, fai in modo che siano regolari e profonde. Concentrati sul tuo respiro: vèdilo! Vedi l’aria, sotto forma di tante piccole bolle, entrare nelle tue narici e osservala uscire: una, due, tre volte… cento volte. diventa il tuo respiro: leggero, limpido, penetrante e sfuggente. Sii il tuo respiro. Non senti le membra del tuo corpo perché ne stai uscendo: il respiro è leggero; è aria e l’aria sale, si muove libera… va…”.
Nella totale concentrazione in cui ero assorta, non percepivo né rumori né immagini.
Ero leggera. Salivo.
L’aria mi conduceva, mi attraeva… ora ero aria…
Andavo sempre più in alto: adesso vedevo di nuovo, ma in modo diverso.
E lassù, dove la nebbia andava diradandosi, nuovi suoni mi giungevano sempre più distintamente, ma non li udivo con le mie orecchie. Quasi ci passavo attraverso…
Tutti i sensi adesso tornavano più acuiti, più intuitivi.
Non erano più quelli di una ragazzina, bensì di un predatore in grado di volare, di scorgere con occhi attenti anche i particolari più lontani e di sapere cosa stava accadendo più in basso, sotto le sue ali corvine e i suoi neri artigli.
Dal capitolo
AL DI LÀ
Ogni giorno il richiamo del mio Principe Oscuro si faceva più forte.
Era l’ultimo sogno che mi congedava dal sonno prima del risveglio; era il fruscio tra l’erba che si apriva al mio passaggio, era il bosco che si raccontava bisbigliando tra le foglie.
Lo sentivo che mi chiamava quando mi allenavo, quando cacciavo, mi distraeva persino quando combattevo e ritmava il battito del mio cuore quando cavalcavo.
Era la sua bella voce che rimaneva sulla spiaggia a frizzare sotto le onde che si ritiravano dal bagnasciuga. Era ancora lei a cantare con gli uccelli notturni appena la luna si mostrava nel cielo. Sempre lei.
Quel richiamo irresistibile era diventato, ormai, ogni istante, parte della mia vita.
Una mattina che nuotavo nelle fredde acque sotto le scogliere di Moher, esattamente sotto il picco chiamato Ceann na Cailleach, la Testa
ella Strega, sono certa che quel richiamo prese addirittura forma.
Quel giorno, infatti, raccolsi l’invito al gioco di una graziosa foca grigia, mai vista prima in quel pezzetto di mare dove ero solita allenarmi nel nuoto.
Mi ero appena abituata all’acqua ghiacciata – avevo dovuto affrontarla ogni mattina per anni per riuscire a resistere in mare per tempi così lunghi – quando la piccola foca aveva fatto capolino tra le onde lunghe, pacate e brillanti, e si era fatta seguire fin sotto le alte pareti che quel giorno si specchiavano pacifiche nell’acqua. L’avevo raggiunta dove si apriva la Grotta del Gigante, fin dentro una piccola insenatura di cui non mi ero mai accorta prima.
E ancor meno avevo fatto caso, prima di allora, a un anomalo foro nella roccia che per metà si trovava sommerso. Là si apriva una feritoia in cui solo un uomo minuto o un bambino potevano entrare; per l’agile lontra grigia fu uno scherzo sgusciare al di là dell’apertura.
Fu allora che avvertii più forte del solito il richiamo del mio Principe, come se quel giorno mi volesse a tutti i costi. Mi chiedeva, attraverso gli occhi di quella piccola e dolce messaggera, di addentrarmi nell’angusta apertura semisommersa.
Ebbi pochi istanti, quando la foca si inabissò lasciandomi sola con i miei dubbi, per decidere: accettare l’invito o tornare dove i raggi del sole erano caldi e benevoli?
Dall’acqua rispuntarono i grandi occhi espressivi della foca che mi guardavano interrogativi; perché esitavo? Perché non la seguivo nel suo gioco intrigante e avventuroso? E se fosse stata una creatura dell’altro mondo che mi incitava a seguirla nel suo regno? Una Selkie, magari, una Roana, una di quelle fate foca che quando non sono viste da occhi umani, in qualche spiaggia deserta o su qualche scoglio nascosto, si svestono della loro pelliccia marina e svelano il loro corpo perfetto di fanciulla?
Come sarebbe stato il loro regno sommerso? A un mortale ne sarebbe stato consentito l’accesso? Soprattutto: sarebbe stato concesso a quell’umano di fare ritorno nel proprio mondo?
La tenera foca rituffò il musetto nei flutti e scomparve.
Ero sola, adesso, in balia del rumore del mare che si gonfiava e si sgonfiava contro la parete di roccia e gorgogliava dentro le fessure, le grotte e le spaccature.
La voglia di scoperta mi abbandonò bruscamente e mi misi a nuotare piena di angoscia verso la spiaggia. Raggiunta la riva rocciosa, all’ombra della Grotta del Gigante, tremavo come una foglia, non sapevo se a causa del freddo o della paura verso l’ignoto.
Guardai allora l’oceano immenso con occhi diversi.
Si apriva davanti a me con due possibili rotte da seguire: una era quella della vita comune, nella coscienza, nella fede e nel dubbio comune, migliore per la pace interiore; questa rotta era come l’acqua più vicina alla riva, poco profonda e più sicura.
L’altra rotta era paragonabile al largo, dove non si tocca, dove l’acqua è scura, le onde sono più alte e le correnti sommerse insidiose.
Dove chi si avventura senza sapere nuotare come un pesce è perduto. Nessuno che non conosca l’oceano oserebbe mai immergersi in acque così profonde! Quell’abisso inesplorato mi attirava e mi atterriva.
Sì, entrare nel proibito e lanciare uno sguardo sull’invisibile era la tentazione più grande, ma mi spaventava.
Avrei voluto tuffarmi, affacciarmi dall’altra parte, penetrare tra le pagine di
quel manoscritto: la chiave che mi avrebbe aperto le porte di un mondo sconosciuto. Che mi avrebbe svelato cose che tutti vorrebbero sapere.
E se proprio quel tuffo fosse stato il tassello mancante nel mosaico del mio destino?
Quel giorno, davanti al mare sconfinato, capii che per non avere più paura dell’ignoto, avrei dovuto comprenderlo.
Soprattutto adesso che mi si presentava finalmente l’opportunità.
Decisi di farlo, quel tuffo.
Così, poche ore dopo, quando il sole fu tramontato e il mare divenne scuro, pensai che era arrivato il momento giusto di togliere una certa pietra da un certo muro.
Infilai la mano nel buco. Fino in fondo. Afferrai l’Uroboro.
In un attimo ero fuori dall’Accademia: non sapevo bene come, né dove, ma ero convinta che Lui mi stesse aspettando.
Incrociai solo Ailill e due giovani aspiranti guerrieri e una volta giunta al ponte sul dirupo fui finalmente sola. Come una ladra ormai in salvo con il bottino conquistato.
Con la nera piuma di corvo stretta nuovamente in pugno, mi allontanai dalle rassicuranti mura di Ash Grove, proseguii seguendo l’istinto, o forse il solito richiamo.
Davanti a me, colline solitarie velate dall’ombra della sera e mosse da un vento inconsueto.
“Se il vento dell’Ovest si è alzato, non trova pace chi è trapassato”, avrebbe detto Amergin.
E poi lo vidi. Il mio Principe Oscuro mi apparve come le figure che si dipanano nel sonno quando si comincia a sognare: vestito di nero e avvolto nel suo mantello, in sella a un meraviglioso cavallo grigio come aria intrisa di nebbia.
Come visione fatta di vento, un miraggio che aspettava solo che io cercassi di afferrarlo per scomparirmi poi sotto il naso. Così come era apparso.
Era l’ultimo sogno che mi congedava dal sonno prima del risveglio; era il fruscio tra l’erba che si apriva al mio passaggio, era il bosco che si raccontava bisbigliando tra le foglie.
Lo sentivo che mi chiamava quando mi allenavo, quando cacciavo, mi distraeva persino quando combattevo e ritmava il battito del mio cuore quando cavalcavo.
Era la sua bella voce che rimaneva sulla spiaggia a frizzare sotto le onde che si ritiravano dal bagnasciuga. Era ancora lei a cantare con gli uccelli notturni appena la luna si mostrava nel cielo. Sempre lei.
Quel richiamo irresistibile era diventato, ormai, ogni istante, parte della mia vita.
Una mattina che nuotavo nelle fredde acque sotto le scogliere di Moher, esattamente sotto il picco chiamato Ceann na Cailleach, la Testa
ella Strega, sono certa che quel richiamo prese addirittura forma.
Quel giorno, infatti, raccolsi l’invito al gioco di una graziosa foca grigia, mai vista prima in quel pezzetto di mare dove ero solita allenarmi nel nuoto.
Mi ero appena abituata all’acqua ghiacciata – avevo dovuto affrontarla ogni mattina per anni per riuscire a resistere in mare per tempi così lunghi – quando la piccola foca aveva fatto capolino tra le onde lunghe, pacate e brillanti, e si era fatta seguire fin sotto le alte pareti che quel giorno si specchiavano pacifiche nell’acqua. L’avevo raggiunta dove si apriva la Grotta del Gigante, fin dentro una piccola insenatura di cui non mi ero mai accorta prima.
E ancor meno avevo fatto caso, prima di allora, a un anomalo foro nella roccia che per metà si trovava sommerso. Là si apriva una feritoia in cui solo un uomo minuto o un bambino potevano entrare; per l’agile lontra grigia fu uno scherzo sgusciare al di là dell’apertura.
Fu allora che avvertii più forte del solito il richiamo del mio Principe, come se quel giorno mi volesse a tutti i costi. Mi chiedeva, attraverso gli occhi di quella piccola e dolce messaggera, di addentrarmi nell’angusta apertura semisommersa.
Ebbi pochi istanti, quando la foca si inabissò lasciandomi sola con i miei dubbi, per decidere: accettare l’invito o tornare dove i raggi del sole erano caldi e benevoli?
Dall’acqua rispuntarono i grandi occhi espressivi della foca che mi guardavano interrogativi; perché esitavo? Perché non la seguivo nel suo gioco intrigante e avventuroso? E se fosse stata una creatura dell’altro mondo che mi incitava a seguirla nel suo regno? Una Selkie, magari, una Roana, una di quelle fate foca che quando non sono viste da occhi umani, in qualche spiaggia deserta o su qualche scoglio nascosto, si svestono della loro pelliccia marina e svelano il loro corpo perfetto di fanciulla?
Come sarebbe stato il loro regno sommerso? A un mortale ne sarebbe stato consentito l’accesso? Soprattutto: sarebbe stato concesso a quell’umano di fare ritorno nel proprio mondo?
La tenera foca rituffò il musetto nei flutti e scomparve.
Ero sola, adesso, in balia del rumore del mare che si gonfiava e si sgonfiava contro la parete di roccia e gorgogliava dentro le fessure, le grotte e le spaccature.
La voglia di scoperta mi abbandonò bruscamente e mi misi a nuotare piena di angoscia verso la spiaggia. Raggiunta la riva rocciosa, all’ombra della Grotta del Gigante, tremavo come una foglia, non sapevo se a causa del freddo o della paura verso l’ignoto.
Guardai allora l’oceano immenso con occhi diversi.
Si apriva davanti a me con due possibili rotte da seguire: una era quella della vita comune, nella coscienza, nella fede e nel dubbio comune, migliore per la pace interiore; questa rotta era come l’acqua più vicina alla riva, poco profonda e più sicura.
L’altra rotta era paragonabile al largo, dove non si tocca, dove l’acqua è scura, le onde sono più alte e le correnti sommerse insidiose.
Dove chi si avventura senza sapere nuotare come un pesce è perduto. Nessuno che non conosca l’oceano oserebbe mai immergersi in acque così profonde! Quell’abisso inesplorato mi attirava e mi atterriva.
Sì, entrare nel proibito e lanciare uno sguardo sull’invisibile era la tentazione più grande, ma mi spaventava.
Avrei voluto tuffarmi, affacciarmi dall’altra parte, penetrare tra le pagine di
quel manoscritto: la chiave che mi avrebbe aperto le porte di un mondo sconosciuto. Che mi avrebbe svelato cose che tutti vorrebbero sapere.
E se proprio quel tuffo fosse stato il tassello mancante nel mosaico del mio destino?
Quel giorno, davanti al mare sconfinato, capii che per non avere più paura dell’ignoto, avrei dovuto comprenderlo.
Soprattutto adesso che mi si presentava finalmente l’opportunità.
Decisi di farlo, quel tuffo.
Così, poche ore dopo, quando il sole fu tramontato e il mare divenne scuro, pensai che era arrivato il momento giusto di togliere una certa pietra da un certo muro.
Infilai la mano nel buco. Fino in fondo. Afferrai l’Uroboro.
In un attimo ero fuori dall’Accademia: non sapevo bene come, né dove, ma ero convinta che Lui mi stesse aspettando.
Incrociai solo Ailill e due giovani aspiranti guerrieri e una volta giunta al ponte sul dirupo fui finalmente sola. Come una ladra ormai in salvo con il bottino conquistato.
Con la nera piuma di corvo stretta nuovamente in pugno, mi allontanai dalle rassicuranti mura di Ash Grove, proseguii seguendo l’istinto, o forse il solito richiamo.
Davanti a me, colline solitarie velate dall’ombra della sera e mosse da un vento inconsueto.
“Se il vento dell’Ovest si è alzato, non trova pace chi è trapassato”, avrebbe detto Amergin.
E poi lo vidi. Il mio Principe Oscuro mi apparve come le figure che si dipanano nel sonno quando si comincia a sognare: vestito di nero e avvolto nel suo mantello, in sella a un meraviglioso cavallo grigio come aria intrisa di nebbia.
Come visione fatta di vento, un miraggio che aspettava solo che io cercassi di afferrarlo per scomparirmi poi sotto il naso. Così come era apparso.
Dal capitolo
LE SACERDOTESSE DI SEIN
Il mare era immobile, senza energia. Come morto.
Nella sua presa liquida, il tempo trascorse freddo, silenzioso e sospeso.
Il petto mi bruciava nonostante la ferita non fosse profonda. Ma mi faceva più male sapere di essermi fatta sfuggire l’Uroboro per un soffio e avere perso anche la Gae Bolg; e poi quel veterano dall’animo nobile, Pantera, che fine aveva fatto, per aiutare me?
Guardiano non mi aveva mai lasciata sola se non per qualche istante, quando si era tuffato nella nebbia per poi ricomparire all’improvviso.
Una bracciata dopo l’altra, respiro dopo respiro, cercai di seguire il suo volo; avanzavo alla cieca, mi fidavo, poi affannavo.
Nuotai e nuotai fendendo quello strano liquido lattiginoso che non sembrava nemmeno più mare.
E forse non era più mare quello in cui mi ritrovavo adesso a galleggiare esausta.
Avevo quasi abbandonato ogni speranza di salvezza, in quel luogo incerto e fermo che tentava di tirarmi giù, di mandarmi a fondo. Agrippina
doveva essersi trovata in una situazione molto simile alla mia, alla deriva, dopo l’affondamento della sua liburna reale.
E lei aveva nuotato, ce l’aveva fatta! Non era stata resa cieca dalla nebbia, ma dal buio. Non era stata tradita da un’ombra, ma da suo figlio!
E ce l’aveva fatta! E non era certo migliore, più resistente, più testarda di me!
No. Non io mi sarei arresa.
Ripresi a nuotare.
Inaspettata, una voce mi raggiunse da lontano. La voce della Calleach che ripeteva “la musica può vincere anche la nebbia più fitta ”.
Il suo ultimo dono per me!
Allora sì che mi fermai, ma per intonare la melodia del vento. Quella che avevo imparato dall’Uroboro. E poi il vento iniziò a soffiare; spazzò via le nubi che si bagnavano nel mare e, finalmente, la mia vista spaziò in un cielo sereno e su isole appena visibili che emergevano mute dalle acque. Lontane, troppo lontane forse, adesso che davvero ero
senza forze. Ma non senza speranza!
Continuai a cantare la melodia della brezza benevola fino a che il mio canto trovò spettatrici insolite.
Non soltanto il vento, infatti, aveva risposto al mio richiamo, ma anche otto piccole foche si erano adunate intorno a me senza smuovere quasi l’acqua.
I loro grandi occhi scuri emersero dalle ondine concentriche, due alla volta, e stettero ad ascoltare incantate la mia melodia.
Solo quando non ebbi più fiato, si immersero sotto di me per diventare una zattera morbida su cui mi abbandonai a un sonno fatato.
***
La spiaggia sulla quale ero approdata era fatta di minuscoli detriti di conchiglie che i marosi di quel lunatico spazio di mare saccheggiavano ogni giorno da chissà quali altri lidi. Come un bottino prezioso, le onde se li trascinavano fino a dove la piccola isola iniziava a essere
punteggiata di verde e di fiori. Qualche alberello dal tronco sottile, ragnatele d’acqua che si insinuavano dal bagno asciuga fin su nell’entroterra disseminato di rocce appiattite dal vento.
Un paesaggio mai visto prima, su cui la luce del cielo rifletteva gli ultimi barlumi aranciati di un sole da poco tramontato. Ero tutta intera, anche se fradicia e ricoperta di sale, ma non avevo più con me la Gae Bolg.
Ora, almeno, sapevo dove fosse diretto l’Uroboro: a Lugdunum, la Collina del Corvo.
Certo che per potere seguire un percorso, prima avrei dovuto scoprire dove mi trovavo, e le risatine sommesse provenienti dall’entroterra forse mi sarebbero state d’aiuto.
Le scovai.
Provenivano da otto fanciulle dai capelli lunghi e scuri. Simili a ninfe, senza indumenti a intaccare la purezza della loro pelle bianca. Ridevano di risate fruscianti e cristalline. I loro corpi perfetti, chiari come la luna argentata di quella sera, si rinfrescavano sinuosi nell’acqua di una
sorgente a due passi dalla spiaggia.
Mi avvicinai di soppiatto e mi nascosi dietro le pietre lisce che degradavano, in alcuni punti, fino al mare. Proprio sotto a una di queste rocce trovai quelle che sembravano morbide pelli di foca e ne avevo appena afferrata una, quando un grido acuto, che non può essere emesso da alcuna
voce umana, mi lacerò i timpani.
Poi il silenzio assoluto, un lamento e quando rialzai lo
sguardo e tolsi le mani dalle orecchie, vidi che tutti gli occhi grandi e scuri
delle otto fanciulle erano fissi su di me. Si nascondevano timide le nudità, con
i loro lunghissimi capelli. E una di loro intonò una melodia così triste che
straziò il mio cuore.
“Molti anni sono passati da quando alla fonte in nove venivamo
e come ora, nell’ombra, delle nostre vesti marine ci spogliavamo.
Di gentile acqua dolce ci piace rinfrescare
la nostra pelle, quella candida, sempre salata per via del mare.
Ma una notte di tanti anni or sono
la nona sorella si innamorò di un uomo.
E da quando l’amore a lui la legò,
della sua vera natura ella si dimenticò.
Al giovane mortale confessò chi era
ed egli la privò della sua pelliccia nera.
La leggenda dice che se a una Roana la pelle sottrai,
della sua vita, del suo destino, per sempre disporrai.
Perché la sua vera natura è destinata a dimenticare
finché non riesca la sua pelliccia nuovamente ad indossare.
Ogni notte mia sorella si sente chiamare dal suo Mare,
ma non ricordando di esserne figlia, lo teme e tristemente ritorna al focolare
di un uomo che amore eterno le giurò, ma che in realtà,
privandola della sua vera natura, nient’altro le dimostra se non cieca crudeltà.”
La tristezza mi strinse il petto e il lamento corale delle sue sorelle era stato capace di ammutolire persino le onde notturne che in lontananza si infrangevano sulla spiaggia.
“Il tuo, fanciulla dai capelli dorati, era un canto di
druido, dai toni fatati…”
Parlarono tutte insieme, simultaneamente, creando una nuova voce così limpida e profonda che poteva essere quella della sorgente stessa.
“… l’abbiamo udito, e subito capito. Era un canto dolce, che parlava di speranza; a te ci ha portate in adunanza.
Al tuo canto, anche la nebbia si è inchinata, ed obbediente si è diradata.
Ha lasciato il passo alle bianche stelle, richiamando a sé le otto foche sorelle.
Sulla spiaggia di Sein ti abbiamo adagiata, poiché di animo nobile tu sei dotata.
Ma la paura di essere private della nostra pelle è tale che ci ha indotte a gridare.
A dimenticarsi l’una dell’altra, nessuna di noi vuol essere condannata:
perciò perdonaci, fanciulla guardiana, se ti abbiamo spaventata”
Porsi alla prima fata foca la sua bella pelliccia morbida
e anche le altre presero le loro. “Non dovreste lasciarle incustodite. Mai.”
“Anche il destino ha la sua importanza." Rispose un’altra sorella. “Sappi che questa è l’isola delle sacerdotesse di Sein e poiché vi sei giunta viva e piena di speranza, potrai di certo incontrarle, essendo il tuo cuore privo di arroganza.
Ti ascolteranno, ti aiuteranno, ad un altro grado di conoscenza ti porteranno.
Ma come l’antico sapere comanda, per vederle dovrai rispondere a una nostra domanda”
“Vi ascolto”.
“Credi a ciò che ti abbiamo raccontato?”
“La triste storia della vostra nona sorella? Certamente”.
“E saresti disposta ad aiutarla, prima di proseguire il
tuo viaggio?”
“Ditemi cosa posso fare per lei e lo farò”.
La Selkie sorrise soddisfatta. “L’hai appena fatto. Segui i fuochi sulla collina e troverai le sacerdotesse della Luna”.
Così dicendo si avviarono in fila verso l’acqua che lambiva la spiaggia fatta di conchiglie e, una ad una, sparirono tra le onde.
Nella sua presa liquida, il tempo trascorse freddo, silenzioso e sospeso.
Il petto mi bruciava nonostante la ferita non fosse profonda. Ma mi faceva più male sapere di essermi fatta sfuggire l’Uroboro per un soffio e avere perso anche la Gae Bolg; e poi quel veterano dall’animo nobile, Pantera, che fine aveva fatto, per aiutare me?
Guardiano non mi aveva mai lasciata sola se non per qualche istante, quando si era tuffato nella nebbia per poi ricomparire all’improvviso.
Una bracciata dopo l’altra, respiro dopo respiro, cercai di seguire il suo volo; avanzavo alla cieca, mi fidavo, poi affannavo.
Nuotai e nuotai fendendo quello strano liquido lattiginoso che non sembrava nemmeno più mare.
E forse non era più mare quello in cui mi ritrovavo adesso a galleggiare esausta.
Avevo quasi abbandonato ogni speranza di salvezza, in quel luogo incerto e fermo che tentava di tirarmi giù, di mandarmi a fondo. Agrippina
doveva essersi trovata in una situazione molto simile alla mia, alla deriva, dopo l’affondamento della sua liburna reale.
E lei aveva nuotato, ce l’aveva fatta! Non era stata resa cieca dalla nebbia, ma dal buio. Non era stata tradita da un’ombra, ma da suo figlio!
E ce l’aveva fatta! E non era certo migliore, più resistente, più testarda di me!
No. Non io mi sarei arresa.
Ripresi a nuotare.
Inaspettata, una voce mi raggiunse da lontano. La voce della Calleach che ripeteva “la musica può vincere anche la nebbia più fitta ”.
Il suo ultimo dono per me!
Allora sì che mi fermai, ma per intonare la melodia del vento. Quella che avevo imparato dall’Uroboro. E poi il vento iniziò a soffiare; spazzò via le nubi che si bagnavano nel mare e, finalmente, la mia vista spaziò in un cielo sereno e su isole appena visibili che emergevano mute dalle acque. Lontane, troppo lontane forse, adesso che davvero ero
senza forze. Ma non senza speranza!
Continuai a cantare la melodia della brezza benevola fino a che il mio canto trovò spettatrici insolite.
Non soltanto il vento, infatti, aveva risposto al mio richiamo, ma anche otto piccole foche si erano adunate intorno a me senza smuovere quasi l’acqua.
I loro grandi occhi scuri emersero dalle ondine concentriche, due alla volta, e stettero ad ascoltare incantate la mia melodia.
Solo quando non ebbi più fiato, si immersero sotto di me per diventare una zattera morbida su cui mi abbandonai a un sonno fatato.
***
La spiaggia sulla quale ero approdata era fatta di minuscoli detriti di conchiglie che i marosi di quel lunatico spazio di mare saccheggiavano ogni giorno da chissà quali altri lidi. Come un bottino prezioso, le onde se li trascinavano fino a dove la piccola isola iniziava a essere
punteggiata di verde e di fiori. Qualche alberello dal tronco sottile, ragnatele d’acqua che si insinuavano dal bagno asciuga fin su nell’entroterra disseminato di rocce appiattite dal vento.
Un paesaggio mai visto prima, su cui la luce del cielo rifletteva gli ultimi barlumi aranciati di un sole da poco tramontato. Ero tutta intera, anche se fradicia e ricoperta di sale, ma non avevo più con me la Gae Bolg.
Ora, almeno, sapevo dove fosse diretto l’Uroboro: a Lugdunum, la Collina del Corvo.
Certo che per potere seguire un percorso, prima avrei dovuto scoprire dove mi trovavo, e le risatine sommesse provenienti dall’entroterra forse mi sarebbero state d’aiuto.
Le scovai.
Provenivano da otto fanciulle dai capelli lunghi e scuri. Simili a ninfe, senza indumenti a intaccare la purezza della loro pelle bianca. Ridevano di risate fruscianti e cristalline. I loro corpi perfetti, chiari come la luna argentata di quella sera, si rinfrescavano sinuosi nell’acqua di una
sorgente a due passi dalla spiaggia.
Mi avvicinai di soppiatto e mi nascosi dietro le pietre lisce che degradavano, in alcuni punti, fino al mare. Proprio sotto a una di queste rocce trovai quelle che sembravano morbide pelli di foca e ne avevo appena afferrata una, quando un grido acuto, che non può essere emesso da alcuna
voce umana, mi lacerò i timpani.
Poi il silenzio assoluto, un lamento e quando rialzai lo
sguardo e tolsi le mani dalle orecchie, vidi che tutti gli occhi grandi e scuri
delle otto fanciulle erano fissi su di me. Si nascondevano timide le nudità, con
i loro lunghissimi capelli. E una di loro intonò una melodia così triste che
straziò il mio cuore.
“Molti anni sono passati da quando alla fonte in nove venivamo
e come ora, nell’ombra, delle nostre vesti marine ci spogliavamo.
Di gentile acqua dolce ci piace rinfrescare
la nostra pelle, quella candida, sempre salata per via del mare.
Ma una notte di tanti anni or sono
la nona sorella si innamorò di un uomo.
E da quando l’amore a lui la legò,
della sua vera natura ella si dimenticò.
Al giovane mortale confessò chi era
ed egli la privò della sua pelliccia nera.
La leggenda dice che se a una Roana la pelle sottrai,
della sua vita, del suo destino, per sempre disporrai.
Perché la sua vera natura è destinata a dimenticare
finché non riesca la sua pelliccia nuovamente ad indossare.
Ogni notte mia sorella si sente chiamare dal suo Mare,
ma non ricordando di esserne figlia, lo teme e tristemente ritorna al focolare
di un uomo che amore eterno le giurò, ma che in realtà,
privandola della sua vera natura, nient’altro le dimostra se non cieca crudeltà.”
La tristezza mi strinse il petto e il lamento corale delle sue sorelle era stato capace di ammutolire persino le onde notturne che in lontananza si infrangevano sulla spiaggia.
“Il tuo, fanciulla dai capelli dorati, era un canto di
druido, dai toni fatati…”
Parlarono tutte insieme, simultaneamente, creando una nuova voce così limpida e profonda che poteva essere quella della sorgente stessa.
“… l’abbiamo udito, e subito capito. Era un canto dolce, che parlava di speranza; a te ci ha portate in adunanza.
Al tuo canto, anche la nebbia si è inchinata, ed obbediente si è diradata.
Ha lasciato il passo alle bianche stelle, richiamando a sé le otto foche sorelle.
Sulla spiaggia di Sein ti abbiamo adagiata, poiché di animo nobile tu sei dotata.
Ma la paura di essere private della nostra pelle è tale che ci ha indotte a gridare.
A dimenticarsi l’una dell’altra, nessuna di noi vuol essere condannata:
perciò perdonaci, fanciulla guardiana, se ti abbiamo spaventata”
Porsi alla prima fata foca la sua bella pelliccia morbida
e anche le altre presero le loro. “Non dovreste lasciarle incustodite. Mai.”
“Anche il destino ha la sua importanza." Rispose un’altra sorella. “Sappi che questa è l’isola delle sacerdotesse di Sein e poiché vi sei giunta viva e piena di speranza, potrai di certo incontrarle, essendo il tuo cuore privo di arroganza.
Ti ascolteranno, ti aiuteranno, ad un altro grado di conoscenza ti porteranno.
Ma come l’antico sapere comanda, per vederle dovrai rispondere a una nostra domanda”
“Vi ascolto”.
“Credi a ciò che ti abbiamo raccontato?”
“La triste storia della vostra nona sorella? Certamente”.
“E saresti disposta ad aiutarla, prima di proseguire il
tuo viaggio?”
“Ditemi cosa posso fare per lei e lo farò”.
La Selkie sorrise soddisfatta. “L’hai appena fatto. Segui i fuochi sulla collina e troverai le sacerdotesse della Luna”.
Così dicendo si avviarono in fila verso l’acqua che lambiva la spiaggia fatta di conchiglie e, una ad una, sparirono tra le onde.